Conseguenze di un contratto a termine “malato”

L’argomento del giorno, che interessa la totalità delle aziende italiane, è il contratto a tempo determinato, con particolare riferimento alle conseguenze nel caso di apposizione di un termine illegittimo.
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Ancora una volta, in assoluta fretta, l’Italia ha dovuto emanare un decreto di urgenza (c.d. Decreto “Salva infrazioni”) per non essere sanzionata dall’Unione europea.

L’argomento del giorno, che interessa la totalità delle aziende italiane, è il contratto a tempo determinato, con particolare riferimento alle conseguenze nel caso di apposizione di un termine illegittimo.

Innanzitutto, ricordiamo che con il decreto Dignità (introdotto dal Movimento 5 stelle) è stata introdotto nel diritto del lavoro il principio secondo cui il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”.

Ne consegue che tutte le altre tipologie contrattuali – c.d. atipiche – sono certamente lecite, ma devono essere gestite con grande attenzione.

Il contratto a termine è proprio la tipologia più a rischio, vista l’esistenza di molteplici “limiti” che le aziende sono tenute a rispettare per non incorrere in un rischio di conversione a tempo indeterminato. Infatti, oltre alla “trasformazione a tempo indeterminato”, comporta anche l’obbligo del datore di pagare una specifica indennità onnicomprensiva, che è stata fatta oggetto di recenti e rilevanti modifiche.

La normativa vigente fino al 16 settembre prevedeva che – nei casi di conversione del contratto a termine – il giudice condannava il datore al risarcimento del lavoratore, stabilendo una indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Ed eccoci alle novità normative.

Innanzitutto, resta invariato il termine che il lavoratore deve rispettare per impugnare un contratto a termine ritenuto illegittimo: 180 giorni dalla cessazione del contratto.

Se il giudice dichiara la trasformazione del contratto da termine a tempo indeterminato, condanna il datore al risarcimento del danno a favore del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.

Dal 17 settembre 2024 è aggiunta alla norma di legge che determinava l’indennità minima e massima, la seguente frase Resta ferma la possibilità per il giudice di stabilire l’indennità in misura superiore se il lavoratore dimostra di aver subito un maggior danno”.

Ed ecco “l’assurdità della norma”, se il lavoratore dimostra di aver subito un maggior danno, il giudice – a propria discrezione – può fissare l’indennità in misura superiore.

Fino a quanto? La norma non lo dice!

Certo, occorre che il dipendente fornisca la prova dei danni subiti (per esempio: il mancato pagamento delle rate del mutuo a causa della perdita del posto di lavoro, il danno alla professionalità, eccetera), ma l’omessa previsione di un tetto massimo complica – e di molto – le cose per i datori di lavoro e, a parere personale, viola il principio fondamentale di certezza del diritto.

Ipotizziamo, ad esempio, le “possibili lungaggini del processo”, che potrebbero incidere sul danno a carico del dipendente, senza alcuna “colpa” in capo al datore.

Non resta che sperare nella legge di conversione che potrebbe, quantomeno per il settore privato, introdurre criteri univoci per il calcolo del danno a favore del dipendente.

Alla luce di quanto sopra, il consiglio che ci sentiamo di fornire è quello di limitare ai primi 12 mesi di contratto la durata complessiva dei contratti a termine.

Restiamo a disposizione per supportarvi in qualunque decisione.

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